Tinto B. - Io NON sono etico -
2007-04-26 19:04:42 UTC
Antonio D’Orrico per Corriere-Magazine
Tra calabresi doc, e quindi attaccati alle loro tradizioni, quando ci
si incontra per la prima volta ci si dà del Vussuria (cioè del «voi»,
come fanno d’altronde francesi e inglesi), e si parla rigorosamente
in dialetto strettissimo. Così è accaduto tra Rino (detto Ringhio)
Gattuso, campione del mondo e del Milan, nato a Schiavonea, provincia
di Cosenza, 29 anni fa, fresco autore di una autobiografia dal titolo
Se uno nasce quadrato non muore tondo, e chi scrive, nato invece a
Cosenza («Cosenza Cosenza?», si è sincerato Gattuso). La prima cosa
che ho detto a Gattuso è che nel suo libro ho particolarmente
apprezzato, e non solo perché sono un po’ parte in causa, il suo
orgoglio di terrone e gli ho citato un brano molto chiaro a questo
proposito: «Per me la parola “terrone” non si riferisce a un fattore
geografico, è un luogo dell’anima. Per scherzare, spesso Pirlo
(Andrea, centrocampista, inseparabile compagno di reparto di Gattuso
nel Milan e nella Nazionale, ndr) mi chiama terrone, dice che noi
terroni siamo stressanti». Segue, sempre nell’autobiografia (che esce
da Rizzoli), una bella definizione di terronità: «Essere terroni
significa avere delle radici molto solide, vuol dire amare e portare
avanti le tradizioni, non rinnegare mai la propria cultura e la
propria identità, dare al proprio figlio maschio il nome del nonno,
avere un rispetto sacro per la famiglia e per gli amici».
L’IMPORTANZA DI CHIAMARSI «VUSSURIA»
A questo punto, sempre in calabrese strettissimo, che è stata la
lingua ufficiale dell’intervista, ho chiesto all’autore ulteriori
delucidazioni sulla terronità o terronitudine. «DI solito si dice
terrone di uno per dire che non ha classe. Che errore! Il terrone
vero ha una classe che il non terrone se la sogna. Il terrone è
quello che si rivolge a un altro chiamandolo Vussuria, che è un segno
di eleganza inarrivabile. A me manca Vussuria e tutto ciò che
comporta l’uso di questa formula». Cioè un modo quasi anglosassone di
relazionarsi con gli altri, un rispetto per la forma da fare un baffo
anche al più navigato diplomatico? «Una roba così. Quando sento mia
sorella, che ha 24 anni, rivolgersi a papà dicendo: Ma chi bù (ma che
vuoi?), mi scoccia un po’».
Lei ha il mito di suo padre. «Mio padre, Francesco, faceva il
falegname ma era un calciatore nell’anima. Giocava centravanti, in
quarta divisione, ma era un Ringhio pure lui, non mollava mai. Una
volta fece 14 gol in una partita sola e la squadra avversaria era la
Morrone di Cosenza, ve la ricordate?». Sì che me la ricordo, povera
Morrone. E poi suo padre lasciò lo Schiavonea, la squadra del paese
dei Gattuso, e andò a giocare con il Corigliano, paese a sette
chilometri di distanza, che è come passare dal Milan all’Inter, dalla
Lazio alla Roma. «Quella storia ancora si racconta dalle mie parti.
Mio nonno, Gennarino (come me, ovviamente), padre di mio padre, il
giorno del derby Schiavonea-Corigliano si posizionò dietro la porta e
per tutta la partita urlò a suo figlio: “Carne venduta”. E chiese
ripetutamente all’arbitro (“Signor camicia nera”), di sbatterla fuori
dal campo quella carne venduta».
Lei scrive che suo padre le ha insegnato a vivere e che se dire una
cosa del genere «non suona intelligente o simpatico o fico, pazienza,
io la penso così». Cosa vuol dire precisamente? «Voglio dire che non
so quanti ragazzi oggi dicono ai genitori: papà ti voglio bene, mamma
ti voglio bene. Io per mio padre ho una venerazione. Se posso farlo
contento in tutto e per tutto... Anche a mamma, per carità, ma
diciamo che il debole è per papà».
Alla famiglia Gattuso non mancava niente, anche se non si potevano
dire ricchi, poi un bel giorno al figlio Rino, che gioca al pallone
col Perugia a rimborso spese, la squadra scozzese dei Rangers offre
500 milioni di lire, una cifra spaventosa. «E io, al telefono da
Perugia, dissi a papà che non volevo andare e lui mi disse: Vignu là
cura machina e tu fazzu arricurdari pe tutt’a vita (traduzione: vengo
lì in macchina e te lo faccio ricordare per tutta la vita). Allora io
dissi: papà, sto scherzando, iamu (traduzione: andiamo, a Glasgow)».
I primi tempi in Scozia furono duri, tremila chilometri lontano dalle
spiagge di Schiavonea. Così li ricorda Gattuso nell’autobiografia:
«L’unico contatto che avevo con l’Italia era RaiUno: ricordo ancora
le notti passate a guardare la televisione, mi beccavo sempre
Sottovoce condotto da Gigi Marzullo. Figuratevi un po’ come stavo
messo. Ma per fortuna che c’era Marzullo: ancora oggi mi capita di
farmi una domanda e di darmi una risposta».
COSA SI DICONO DAVVERO I GIOCATORI IN CAMPO
Essere calabresi è una forma mentale. Nel libro Gattuso lo spiega
benissimo: «Io penso anche in calabrese, è più veloce, è più
comodo... Anche sul campo, quando bisogna prendere una decisione in
una frazione di secondo, il mio cervello comincia a produrre idee in
calabrese. E se mi capita di imprecare dopo una palla sbagliata, per
un fallo di un avversario, o contro un arbitro, lo faccio in
calabrese. Chissà quanti morti che t’è muort, morti ’e mammete o vai
a fare in du culu ho tirato durante la mia carriera... Io gioco
ancora in calabrese, proprio come facevo vent’anni fa. Giocare in
calabrese significa sudarsi la pagnotta, combattere, non tirarsi mai
indietro, non mollare mai, metterci la stessa rabbia su ogni pallone,
anche quelli che sembrano persi o impossibili. È vero che a Perugia,
Glasgow, Salerno e Milano (le città delle squadre per cui Gattuso ha
giocato, ndr) ho imparato molto. Ma il mio spirito guerriero deriva
dalla mia terra d’origine. Guardate i calciatori calabresi che
militano in serie A: Juliano, Fiore, Pippo Pancaro, Perrotta,
Iaquinta e io. Siamo tutti combattenti, gente che non si scorda da
dove arriva, e che è orgogliosa delle proprie radici. L’appartenenza
allo stesso ceppo si è fatta sentire anche nelle occasioni in cui ci
siamo trovati in Nazionale insieme. Tra noi calabresi si parla sempre
in dialetto, è la nostra lingua, è una cosa spontanea».
IL PIÙ BUONO? MARCO MATERAZZI
Ho un debole per il calciatore Stefano Fiore, lo considero un grande
ed esterno questa mia convinzione a Gattuso. «Stefano è un giocatore
di classe. Ve lo ricordate agli Europei del 2000? Anche suo padre era
un giocatore e molto bravo pure lui. Forse si dovrebbe scrivere una
storia del calcio cosentino».
Ah, in materia sono preparatissimo. Vediamo Vussuria se lo è: se vi
faccio il nome di Teobaldo Del Morgine cosa mi dite? «Ah, il mister
Del Morgine, figlio a sua volta di mister, giocava con papà, gran
tiro su punizione». Esame superato brillantemente. In vista di una
futura storia del calcio calabrese, Gattuso ha già preparato un
dizionarietto trilingue (inglese, italiano, calabrese) di termini
calcistici. Ne fornisce qualche esempio nel suo libro. Tackle,
contrasto in italiano, in calabrese si traduce: Acciungal
(letteralmente: azzoppalo, ovverosia procuragli una qualche
mutilazione). Gattuso ha un’idea forte del calcio e, infatti, suo
grande amico (si considerano gemelli) è Marco Materazzi.
Cominciarono assieme a Perugia. Gattuso non aveva ancora la patente
perché non aveva 18 anni e guadagnava pochissimo. Materazzi invece
aveva già un contratto da calciatore professionista. Così nel libro
Gattuso ricorda quegli anni: «Per fortuna c’era Marco-cuore-grande:
lui è stato la mia chioccia, ogni tanto mi sganciava pure qualche
banconota da centomila lire per aiutarmi, e mi portava in giro per
Perugia con la sua macchina».
Mario Sconcerti ha spiegato meglio di tutti il senso dei Mondiali
vinti dall’Italia l’estate scorsa. Ha detto che sono stati i Mondiali
di Materazzi, di Grosso, di Cannavaro, di Gattuso e non tanto quelli
di Totti e Toni. Ha vinto cioè l’italianità della fatica, della
durezza se è necessario, della fisicità e non tanto quella della
tecnica, dello stile o della genialità calcistica. Il simbolo di
quell’Italia concreta, laboriosa, cioè Rino Gattuso, è diventato il
principe dei testimonial italiani, un’icona glamour. Dolce&Gabbana lo
hanno fotografato in mutande (le loro) dentro uno spogliatoio («A mia
moglie quella non è piaciuta»).
Vodaphone lo ha scelto come protagonista del fortunatissimo
tormentone «Life is... now» assieme a Francesco Totti. E, ancora, la
Gillette, la Coca Cola, la Nike... Ma, Gattuso, sa di possedere un
vero talento di attore come dimostrano le sue esibizioni negli spot?
«Non so se c’è questo talento in me. Devono giudicarlo gli altri.
Però sicuramente preferisco stare nel mondo in cui sono sempre stato,
nel mondo del calcio. Poi certo è normale che quando grandi aziende,
e devo dire che ho avuto la fortuna in questo periodo di lavorare con
grandissime aziende, ti propongono delle robe che l’immagine te la
fanno crescere, come fai a dire di no? Al di là dei soldi, perché uno
sicuramente lo fa anche per i soldi, queste aziende sono incredibili
per quello che riescono a fare della tua immagine». Ma la sua
immagine negli spot è quella reale? «Sì, sono me stesso, sono
spontaneo e mi diverto anche».
Nel libro lei ricorda di aver fatto un gol all’Inghilterra di David
Beckham, il calciatore glamorous per antonomasia. Molti pensano che
lei sia diventato l’Anti-Beckham, è così? «Se vogliamo intendere che
io nella mia vita non mi sono mai spalmato una cremina sulla faccia,
ci può stare. Nel senso che non ho mai cercato un look particolare,
che il mio aspetto lo curo poco, che la barba me la taglio tre volte
la settimana con il rasoio elettrico invece di aggiustarmela ogni
giorno».
(Pirlo con la maglia dell'Italia - FOto Lapresse)
UN GIOCATORE HA SEMPRE FAME
Nel libro lei racconta quanto patisce l’attesa delle grandi gare: non
dorme, va continuamente in bagno, salta in aria come un indemoniato
se appena qualcuno la sfiora. «È terribile l’attesa delle grandi
sfide. Preghi Dio: ti giuro, fammi passare questa e poi non ti chiedo
più nulla. Ma la volta seguente chiedi ancora di vincere. Ti brucia
quando perdi, non ho visto nessuno che ci sta a perdere». Lei rivela
anche come metabolizza le sconfitte: da solo, in cucina, preparandosi
un panino e prendendolo a morsi come se fosse l’avversario che lo ha
battuto. «Mi pare giusto fare così. Perché devi infelicitare anche
gli altri? Prima di adottare il metodo del panino-da-solo-in-cucina,
ho fatto le peggiori litigate con mia moglie».
Nel libro (che è una vera autobiografia, non il classico libro finto
da calciatore) lei parla di cibo, di mangiare in maniera quasi
ossessivamente. «Perché vengo da una famiglia molto robusta e tendo a
ingrassare, da sempre. Se bevo un bicchiere di vino in più ci
vogliono chilometri di corsa per smaltirlo. Da quando gioco a calcio
seriamente, e sono tanti anni ormai, mi alzo da tavola che ho sempre
fame. Mi peso tutti i giorni e se sono ingrassato di un chilo mi
toccano due giorni di passato di verdure. Passato di verdure».
Gattuso invidia i suoi compagni, gli eletti «che mangiano come
animali e non aumentano di un grammo», tipo Pirlo e Gourcuff. Non
riesce proprio a capire, poi, quelli che sono disinteressati
all’argomento cibo: «Prendete Pippo Inzaghi: da trent’anni mangia
sempre le stesse cose, pasta in bianco e bresaola, soltanto a vederlo
mi viene la febbre a quaranta. Lui è uno che controlla
scrupolosamente tutto ciò che ingurgita, è più schematico di un
ragioniere».
Lui, Gattuso, sogna il tiramisù di sua moglie (che viene da una
famiglia di ristoratori e conosce il mestiere): «Ho scoperto solo da
poco tempo che l’ingrediente magico che usa sono i Kinder Bueno, li
sbriciola e li mette nell’impasto: una goduria».
Per restare negli 82 chili del suo peso forma (è alto un metro e 76),
Ringhio deve rinunciare alla panina (come si chiama in Calabria),
quel semplice e divino sandwich di cui fornisce la ricetta: «prendere
quei nostri panini tipici, condirli con pomorini secchi (calabresi
ovviamente), un po’ di cipolla e qualche fetta di prosciutto crudo o
cotto: a ogni morso si raggiunge l’estasi». Come dire? Life is...
now. Cioè in cosentino: ’A vita è... mò.
Tra calabresi doc, e quindi attaccati alle loro tradizioni, quando ci
si incontra per la prima volta ci si dà del Vussuria (cioè del «voi»,
come fanno d’altronde francesi e inglesi), e si parla rigorosamente
in dialetto strettissimo. Così è accaduto tra Rino (detto Ringhio)
Gattuso, campione del mondo e del Milan, nato a Schiavonea, provincia
di Cosenza, 29 anni fa, fresco autore di una autobiografia dal titolo
Se uno nasce quadrato non muore tondo, e chi scrive, nato invece a
Cosenza («Cosenza Cosenza?», si è sincerato Gattuso). La prima cosa
che ho detto a Gattuso è che nel suo libro ho particolarmente
apprezzato, e non solo perché sono un po’ parte in causa, il suo
orgoglio di terrone e gli ho citato un brano molto chiaro a questo
proposito: «Per me la parola “terrone” non si riferisce a un fattore
geografico, è un luogo dell’anima. Per scherzare, spesso Pirlo
(Andrea, centrocampista, inseparabile compagno di reparto di Gattuso
nel Milan e nella Nazionale, ndr) mi chiama terrone, dice che noi
terroni siamo stressanti». Segue, sempre nell’autobiografia (che esce
da Rizzoli), una bella definizione di terronità: «Essere terroni
significa avere delle radici molto solide, vuol dire amare e portare
avanti le tradizioni, non rinnegare mai la propria cultura e la
propria identità, dare al proprio figlio maschio il nome del nonno,
avere un rispetto sacro per la famiglia e per gli amici».
L’IMPORTANZA DI CHIAMARSI «VUSSURIA»
A questo punto, sempre in calabrese strettissimo, che è stata la
lingua ufficiale dell’intervista, ho chiesto all’autore ulteriori
delucidazioni sulla terronità o terronitudine. «DI solito si dice
terrone di uno per dire che non ha classe. Che errore! Il terrone
vero ha una classe che il non terrone se la sogna. Il terrone è
quello che si rivolge a un altro chiamandolo Vussuria, che è un segno
di eleganza inarrivabile. A me manca Vussuria e tutto ciò che
comporta l’uso di questa formula». Cioè un modo quasi anglosassone di
relazionarsi con gli altri, un rispetto per la forma da fare un baffo
anche al più navigato diplomatico? «Una roba così. Quando sento mia
sorella, che ha 24 anni, rivolgersi a papà dicendo: Ma chi bù (ma che
vuoi?), mi scoccia un po’».
Lei ha il mito di suo padre. «Mio padre, Francesco, faceva il
falegname ma era un calciatore nell’anima. Giocava centravanti, in
quarta divisione, ma era un Ringhio pure lui, non mollava mai. Una
volta fece 14 gol in una partita sola e la squadra avversaria era la
Morrone di Cosenza, ve la ricordate?». Sì che me la ricordo, povera
Morrone. E poi suo padre lasciò lo Schiavonea, la squadra del paese
dei Gattuso, e andò a giocare con il Corigliano, paese a sette
chilometri di distanza, che è come passare dal Milan all’Inter, dalla
Lazio alla Roma. «Quella storia ancora si racconta dalle mie parti.
Mio nonno, Gennarino (come me, ovviamente), padre di mio padre, il
giorno del derby Schiavonea-Corigliano si posizionò dietro la porta e
per tutta la partita urlò a suo figlio: “Carne venduta”. E chiese
ripetutamente all’arbitro (“Signor camicia nera”), di sbatterla fuori
dal campo quella carne venduta».
Lei scrive che suo padre le ha insegnato a vivere e che se dire una
cosa del genere «non suona intelligente o simpatico o fico, pazienza,
io la penso così». Cosa vuol dire precisamente? «Voglio dire che non
so quanti ragazzi oggi dicono ai genitori: papà ti voglio bene, mamma
ti voglio bene. Io per mio padre ho una venerazione. Se posso farlo
contento in tutto e per tutto... Anche a mamma, per carità, ma
diciamo che il debole è per papà».
Alla famiglia Gattuso non mancava niente, anche se non si potevano
dire ricchi, poi un bel giorno al figlio Rino, che gioca al pallone
col Perugia a rimborso spese, la squadra scozzese dei Rangers offre
500 milioni di lire, una cifra spaventosa. «E io, al telefono da
Perugia, dissi a papà che non volevo andare e lui mi disse: Vignu là
cura machina e tu fazzu arricurdari pe tutt’a vita (traduzione: vengo
lì in macchina e te lo faccio ricordare per tutta la vita). Allora io
dissi: papà, sto scherzando, iamu (traduzione: andiamo, a Glasgow)».
I primi tempi in Scozia furono duri, tremila chilometri lontano dalle
spiagge di Schiavonea. Così li ricorda Gattuso nell’autobiografia:
«L’unico contatto che avevo con l’Italia era RaiUno: ricordo ancora
le notti passate a guardare la televisione, mi beccavo sempre
Sottovoce condotto da Gigi Marzullo. Figuratevi un po’ come stavo
messo. Ma per fortuna che c’era Marzullo: ancora oggi mi capita di
farmi una domanda e di darmi una risposta».
COSA SI DICONO DAVVERO I GIOCATORI IN CAMPO
Essere calabresi è una forma mentale. Nel libro Gattuso lo spiega
benissimo: «Io penso anche in calabrese, è più veloce, è più
comodo... Anche sul campo, quando bisogna prendere una decisione in
una frazione di secondo, il mio cervello comincia a produrre idee in
calabrese. E se mi capita di imprecare dopo una palla sbagliata, per
un fallo di un avversario, o contro un arbitro, lo faccio in
calabrese. Chissà quanti morti che t’è muort, morti ’e mammete o vai
a fare in du culu ho tirato durante la mia carriera... Io gioco
ancora in calabrese, proprio come facevo vent’anni fa. Giocare in
calabrese significa sudarsi la pagnotta, combattere, non tirarsi mai
indietro, non mollare mai, metterci la stessa rabbia su ogni pallone,
anche quelli che sembrano persi o impossibili. È vero che a Perugia,
Glasgow, Salerno e Milano (le città delle squadre per cui Gattuso ha
giocato, ndr) ho imparato molto. Ma il mio spirito guerriero deriva
dalla mia terra d’origine. Guardate i calciatori calabresi che
militano in serie A: Juliano, Fiore, Pippo Pancaro, Perrotta,
Iaquinta e io. Siamo tutti combattenti, gente che non si scorda da
dove arriva, e che è orgogliosa delle proprie radici. L’appartenenza
allo stesso ceppo si è fatta sentire anche nelle occasioni in cui ci
siamo trovati in Nazionale insieme. Tra noi calabresi si parla sempre
in dialetto, è la nostra lingua, è una cosa spontanea».
IL PIÙ BUONO? MARCO MATERAZZI
Ho un debole per il calciatore Stefano Fiore, lo considero un grande
ed esterno questa mia convinzione a Gattuso. «Stefano è un giocatore
di classe. Ve lo ricordate agli Europei del 2000? Anche suo padre era
un giocatore e molto bravo pure lui. Forse si dovrebbe scrivere una
storia del calcio cosentino».
Ah, in materia sono preparatissimo. Vediamo Vussuria se lo è: se vi
faccio il nome di Teobaldo Del Morgine cosa mi dite? «Ah, il mister
Del Morgine, figlio a sua volta di mister, giocava con papà, gran
tiro su punizione». Esame superato brillantemente. In vista di una
futura storia del calcio calabrese, Gattuso ha già preparato un
dizionarietto trilingue (inglese, italiano, calabrese) di termini
calcistici. Ne fornisce qualche esempio nel suo libro. Tackle,
contrasto in italiano, in calabrese si traduce: Acciungal
(letteralmente: azzoppalo, ovverosia procuragli una qualche
mutilazione). Gattuso ha un’idea forte del calcio e, infatti, suo
grande amico (si considerano gemelli) è Marco Materazzi.
Cominciarono assieme a Perugia. Gattuso non aveva ancora la patente
perché non aveva 18 anni e guadagnava pochissimo. Materazzi invece
aveva già un contratto da calciatore professionista. Così nel libro
Gattuso ricorda quegli anni: «Per fortuna c’era Marco-cuore-grande:
lui è stato la mia chioccia, ogni tanto mi sganciava pure qualche
banconota da centomila lire per aiutarmi, e mi portava in giro per
Perugia con la sua macchina».
Mario Sconcerti ha spiegato meglio di tutti il senso dei Mondiali
vinti dall’Italia l’estate scorsa. Ha detto che sono stati i Mondiali
di Materazzi, di Grosso, di Cannavaro, di Gattuso e non tanto quelli
di Totti e Toni. Ha vinto cioè l’italianità della fatica, della
durezza se è necessario, della fisicità e non tanto quella della
tecnica, dello stile o della genialità calcistica. Il simbolo di
quell’Italia concreta, laboriosa, cioè Rino Gattuso, è diventato il
principe dei testimonial italiani, un’icona glamour. Dolce&Gabbana lo
hanno fotografato in mutande (le loro) dentro uno spogliatoio («A mia
moglie quella non è piaciuta»).
Vodaphone lo ha scelto come protagonista del fortunatissimo
tormentone «Life is... now» assieme a Francesco Totti. E, ancora, la
Gillette, la Coca Cola, la Nike... Ma, Gattuso, sa di possedere un
vero talento di attore come dimostrano le sue esibizioni negli spot?
«Non so se c’è questo talento in me. Devono giudicarlo gli altri.
Però sicuramente preferisco stare nel mondo in cui sono sempre stato,
nel mondo del calcio. Poi certo è normale che quando grandi aziende,
e devo dire che ho avuto la fortuna in questo periodo di lavorare con
grandissime aziende, ti propongono delle robe che l’immagine te la
fanno crescere, come fai a dire di no? Al di là dei soldi, perché uno
sicuramente lo fa anche per i soldi, queste aziende sono incredibili
per quello che riescono a fare della tua immagine». Ma la sua
immagine negli spot è quella reale? «Sì, sono me stesso, sono
spontaneo e mi diverto anche».
Nel libro lei ricorda di aver fatto un gol all’Inghilterra di David
Beckham, il calciatore glamorous per antonomasia. Molti pensano che
lei sia diventato l’Anti-Beckham, è così? «Se vogliamo intendere che
io nella mia vita non mi sono mai spalmato una cremina sulla faccia,
ci può stare. Nel senso che non ho mai cercato un look particolare,
che il mio aspetto lo curo poco, che la barba me la taglio tre volte
la settimana con il rasoio elettrico invece di aggiustarmela ogni
giorno».
(Pirlo con la maglia dell'Italia - FOto Lapresse)
UN GIOCATORE HA SEMPRE FAME
Nel libro lei racconta quanto patisce l’attesa delle grandi gare: non
dorme, va continuamente in bagno, salta in aria come un indemoniato
se appena qualcuno la sfiora. «È terribile l’attesa delle grandi
sfide. Preghi Dio: ti giuro, fammi passare questa e poi non ti chiedo
più nulla. Ma la volta seguente chiedi ancora di vincere. Ti brucia
quando perdi, non ho visto nessuno che ci sta a perdere». Lei rivela
anche come metabolizza le sconfitte: da solo, in cucina, preparandosi
un panino e prendendolo a morsi come se fosse l’avversario che lo ha
battuto. «Mi pare giusto fare così. Perché devi infelicitare anche
gli altri? Prima di adottare il metodo del panino-da-solo-in-cucina,
ho fatto le peggiori litigate con mia moglie».
Nel libro (che è una vera autobiografia, non il classico libro finto
da calciatore) lei parla di cibo, di mangiare in maniera quasi
ossessivamente. «Perché vengo da una famiglia molto robusta e tendo a
ingrassare, da sempre. Se bevo un bicchiere di vino in più ci
vogliono chilometri di corsa per smaltirlo. Da quando gioco a calcio
seriamente, e sono tanti anni ormai, mi alzo da tavola che ho sempre
fame. Mi peso tutti i giorni e se sono ingrassato di un chilo mi
toccano due giorni di passato di verdure. Passato di verdure».
Gattuso invidia i suoi compagni, gli eletti «che mangiano come
animali e non aumentano di un grammo», tipo Pirlo e Gourcuff. Non
riesce proprio a capire, poi, quelli che sono disinteressati
all’argomento cibo: «Prendete Pippo Inzaghi: da trent’anni mangia
sempre le stesse cose, pasta in bianco e bresaola, soltanto a vederlo
mi viene la febbre a quaranta. Lui è uno che controlla
scrupolosamente tutto ciò che ingurgita, è più schematico di un
ragioniere».
Lui, Gattuso, sogna il tiramisù di sua moglie (che viene da una
famiglia di ristoratori e conosce il mestiere): «Ho scoperto solo da
poco tempo che l’ingrediente magico che usa sono i Kinder Bueno, li
sbriciola e li mette nell’impasto: una goduria».
Per restare negli 82 chili del suo peso forma (è alto un metro e 76),
Ringhio deve rinunciare alla panina (come si chiama in Calabria),
quel semplice e divino sandwich di cui fornisce la ricetta: «prendere
quei nostri panini tipici, condirli con pomorini secchi (calabresi
ovviamente), un po’ di cipolla e qualche fetta di prosciutto crudo o
cotto: a ogni morso si raggiunge l’estasi». Come dire? Life is...
now. Cioè in cosentino: ’A vita è... mò.
--
"Ronaldinho al Milan? Beh, risparmierei tutti i soldi che spendono
gli altri. Non credo che sia un momento nel quale ci sia cosi`
necessita` di spendere per spendere. Bisogna avere un atteggiamento
serio."
Moratti Massimo
"Ronaldinho al Milan? Beh, risparmierei tutti i soldi che spendono
gli altri. Non credo che sia un momento nel quale ci sia cosi`
necessita` di spendere per spendere. Bisogna avere un atteggiamento
serio."
Moratti Massimo